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Scosto la tenda per sbirciare dalla finestra il cielo, ipotizzando la temperatura. Mi stiracchio sulla sedia, rimugino. Se andassi adesso probabilmente incontrerei meno persone.
Mi trascino in camera con uno stato d'animo ambivalente, che oscilla tra la noia e il sollievo.
Scelgo in fretta e senza cura come vestirmi, torno in cucina. Prendo la borsa, la posiziono sul tavolo, aperta come una bocca famelica. Inizio a rimpinzarla di tutto il mio attuale necessario: portafogli, chiavi, fazzoletti, guanti, gel igienizzante, autocertificazione. La chiudo.
Prendo l'unica, stropicciata mascherina momentaneamente in mio possesso, la indosso. Mi assale quella strana sensazione di sicurezza mista a disagio. È incredibile sentirsi così ridicoli eppure così al riparo con un piccolo pezzo di tessuto che copre la bocca e il naso. Esco.
Mentre raggiungo la macchina mi guardo attorno. Osservo il vialetto deserto, i palazzi, mi soffermo sui balconi: un uomo sta fumando, dei bambini si rincorrono, una signora parla al telefono. La quarantena li ha resi più popolosi, più colorati: stesi al sole sventolano fieri diversi striscioni e bandiere. Se solo non ci fosse questo spaventoso vuoto e silenzio intorno, sembrerebbe quasi un quartiere che si prepara ai Mondiali.
Scivolo in macchina, guido piano verso il supermercato. Imboccando il parcheggio ho un piccolo sussulto: il numero di macchine in sosta non mi sembra affatto scarso. Scendo, infilo i guanti, mi avvicino all'ingresso. Una piccola e ben distanziata fila indiana di clienti aspetta silenziosa il permesso d'entrare. Infastidita e intimorita mi accodo. L'attesa mi pesa come quella d'acqua per un assetato. Quando arriva il mio turno sono però agitata. Spingo incerta il carrello, mi muovo cauta lungo i reparti, prendo a caso prodotti di cui ho già fatto in realtà buona scorta.
Tutte le volte che incontro qualcuno lungo la mia corsia mi sento a disagio. Cerco di tenermene lontana, di respirare piano, fisso gli scaffali con recitata attenzione. Quando capita d'incrociare il loro sguardo percepisco, malcelata dietro la mascherina, una comune espressione di timore. Raggiungo frettolosa la cassa, interagisco lo stretto indispensabile con la commessa, esco.
Solo dopo essermi seduta in macchina mi concedo un lungo, profondo respiro.
Quella che dovrebbe essere l'agognata ora d'aria diventa invece una triste gara d'apnea.
CHE COSA MI SUCCEDE?
Se prima del Covid-19 la spesa consisteva in un'attività noiosa, obbligata e spesso rimandata per la maggior parte delle persone, l'uscita per comprare qualsiasi "bene di prima necessità" in questo momento rappresenta, invece, il principale alibi con cui tutti noi ci siamo concessi di sgranchire le gambe fuori dalle mura di casa. Uscire per comprare qualcosa, tuttavia, non è mai stato così strano: bisogna esser soli e rigorosamente muniti di mascherina e guanti, spesso tocca far la fila per entrare, molti prodotti finiscono prima del solito, il chiasso tipico di un luogo brulicante di persone è stato sostituito dal rumore sommesso di respiri e carrelli cigolanti. Usciamo per liberarci dalla prigionia di casa, ma una volta fuori ci sentiamo ancora più intrappolati e alienati di prima. L'isolamento ci ha incattiviti, preghiamo per un ritorno alla normalità e tutto quello che se ne allontana ci angoscia e impaura. Ma la verità è che questa routine non cambierà in fretta. Diventerà così necessario imparare a gestire tutti quei cambiamenti sociali, culturali, personali ed emotivi che ne deriveranno.
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